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Il dilemma dell’olio di palma

Trovare un prodotto “senza olio di palma“ e allo stesso tempo con una bella lista ingredienti, sia esso cibo o cosmetico, è come cercare un ago in un pagliaio.

È uno degli ingredienti più controversi dei nostri tempi che, nonostante le numerose e spesso fondate critiche, presenta delle proprietà uniche in diversi ambiti di produzione industriale e artigianale. Sebbene negli ultimi anni l’olio di palma sia sulla bocca di tutti, forse in pochi si soffermano sulla sua storia per capire quando, come e perché questo ingrediente ha fatto la sua entrata nel mercato occidentale.

Nonostante l’85% della produzione odierna di olio di palma provenga da Malesia e Indonesia, la sua area geografica di origine è l’Africa Occidentale, dove per secoli veniva utilizzato come ingrediente tradizionale in diverse preparazioni. La sua storia e la sua esportazione sono strettamente legate alla tratta degli schiavi dall’Africa e più in generale al colonialismo europeo nel sud-est asiatico. Infatti, questo staple-food africano poteva fare la differenza nel mantenere in vita i prigionieri che, a partire dal XVI secolo, venivano trasportati attraverso l’Atlantico per raggiungere il Nuovo Mondo. Pare, inoltre, venisse utilizzato come unguento per preparare il corpo degli schiavi alla vendita, facendoli sembrare in piena salute, giovani e forti. Un’abitudine, quella del suo utilizzo “cosmetico”, che presto venne adottata anche dagli europei per curare lividi o ustioni.
Dopo l’abolizione della tratta degli schiavi nel 1807 e nei successivi anni, la Gran Bretagna
cercò di incoraggiare la produzione dell’olio di palma in Africa, riducendone al tempo stesso le tariffe, affinché il commercio di questo bene di lusso potesse proseguire. Entro la metà dello stesso secolo, il costo dell’olio di palma era diventato così conveniente che lo si preferì al sego o all’olio di balena, fino ad allora utilizzati per la produzione di sapone e candele. Con il tempo, grazie anche ad alcuni processi di fermentazione che ne migliorarono il sapore, i prezzi dell’olio di palma si abbassarono ancora di più al punto che questo ingrediente poteva sostituire anche i grassi e gli olii più costosi.

Fu con l’invenzione della margarina, prima di origine animale poi completamente vegetale, che l’olio di palma vide il suo vero boom. All’inizio veniva utilizzato come colorante per le margarine, per donare al prodotto finale un colore più appetibile, ma presto fu chiaro che l’olio di palma poteva essere il perfetto sostituto vegetale del burro: sodo a temperatura ambiente e scioglievole in bocca. I mercati europei e americani necessitavano di una maggiore offerta per soddisfare la crescente domanda e per questo ci si rivolse subito alle colonie africane, dove però le comunità locali si rifiutarono di cedere terreno per questa produzione, con il conseguente aumento di violenza da parte delle potenze europee per imporsi sui territori stranieri. Maggiore successo arrivò nei territori del sud-est asiatico, dove si crearono le prime grandi piantagioni di palma da olio, i cui lavoratori, spesso immigrati dalla vicina India, Indonesia e Cina, sottostavano a contratti discriminatori e salari sottopagati. Le palme si adattarono bene al nuovo habitat, creando coltivazioni molto più ordinate e facili da gestire, tant’è che nel 1940 Indonesia e Malesia erano i più grandi esportatori di olio da palma, superando così la produzione dell’Africa, paese d’origine della stessa pianta.

Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, in concomitanza con l’abbandono di ingredienti come lo strutto e il sego, la richiesta dell’olio di palma crebbe esponenzialmente, una crescita che non si arrestò nemmeno quando i consumatori europei e americani si resero conto delle potenziali implicazioni negative sulla salute umana. L’industria alimentare slittò semplicemente il suo utilizzo verso prodotti fritti e da forno, così la produzione continuò a crescere; parallelamente le condizioni di lavoro nelle piantagioni erano ancora caratterizzate da una manodopera illegale e sottopagata, una situazione non così lontana dal colonialismo di inizio secolo, nonostante fossimo già negli anni 70′ e 80′. Nell’ultimo decennio del secolo scorso scoppia il caso dei grassi trans, presenti negli olii idrogenati utilizzati nei prodotti alimentari, ovvero di quanto il loro consumo potesse aumentare le probabilità di sviluppo di malattie cardiovascolari. Molte aziende alimentari decisero così di eliminare o limitare il loro utilizzo.
Secondo voi a quale sostituto si sono rivolti?
Ebbene sì, l’olio di palma si rivela essere perfetto e il perché lo scopriremo più avanti.
Negli ultimi 20 anni l’importazione dell’olio di palma nei mercati occidentali è più che duplicata, in alcuni casi addirittura quadruplicata, questo anche perché le aziende che hanno deciso di rinunciare completamente al suo utilizzo o di indirizzarsi verso l’olio di palma ottenuto da coltivazioni sostenibili (tema che approfondiremo più avanti) sono ancora la minoranza.

Vi lascio ad alcuni dati interessanti, che forse in pochi conosciamo, prima di passare ad approfondire i pro e i contro di questo ingrediente.

  • L’ambito in cui si utilizza maggiormente l’olio di palma è nell’industria alimentare, che ricopre il 68% dell’uso mondiale; segue l’industria cosmetica e quella del biodiesel. Alcuni paesi primeggiano nell’ultimo settore rispetto ad altri, come nel caso della Germania. Peccato però che diversi studi abbiano confermato quanto il biodiesel ottenuto con l’olio di palma emetta una maggior quantità di CO2 nell’aria rispetto ad altri carburanti.
  • Tra i principali importatori di olio di palma, secondo i dati del 2017, abbiamo Cina, India e Pakistan; seguono Olanda, Spagna e Italia.
  • Il mercato europeo e quello americano ricoprono solo il 14% della domanda mondiale di olio di palma.
  • Malesia e Indonesia insieme coprono l’85% della produzione mondiale, ma “solo” il 63% di tutti i terreni sono utilizzati per questa pianta.
  • Nelle liste ingredienti di prodotti alimentari o cosmetici potete trovare l’olio di palma anche sotto altre denominazioni. Sul sito web di Palm Oil Investigations potete trovare una lista esaustiva di tutti gli ingredienti che nel 95% dei casi derivano dall’olio di palma. Alcuni esempi, che senz’altro avete già incontrato sull’etichette, sono: ​Acetic and fatty acid esters of glycerol, Beta Carotene, Emulsifiers (i famosi E numerati, per intenderci), Glycerin, ecc.

Senza ombra di dubbio, due elementi in particolare hanno reso l’olio di palma così richiesto: il suo basso costo, anche grazie ad un passato (ndr. ma anche presente) marchiato dal colonialismo occidentale, e le sue caratteristiche, che lo rendono uno dei grassi più versatili e stabili che si possa utilizzare nell’industria alimentare e cosmetica.

In realtà i pro e i contro sono molti di più, ed è giunto il momento di scoprirli.

Il buono e il cattivo dell’olio di palma

Se cercate “olio di palma” su Google.it, i primi risultati (non sponsorizzati) sono accomunati dai medesimi titoli e dubbi: “perché è dannoso per la salute?”, “Perché la Nutella non toglie l’olio di palma?”, “…rischio di sviluppare un tumore, “…cos’è? Fa male?” e così via.

Addentriamoci dunque nel cuore del tema e analizziamo i pro e i contro dell’olio di palma e della sua produzione: è davvero così dannoso per la salute? È una minaccia per l’ambiente? Se sì, in che modo? E allora perché non usiamo ingredienti alternativi?

Ripercorrendo la storia dell’olio di palma, abbiamo chiarito come la sua onnipresenza si sia consolidata nel mercato alimentare e non. Se poi avete letto il mio articolo sui grassi alimentari, saprete che l’olio di palma rientra nella categoria dei grassi saturi. L’olio di palma contiene nello specifico 49% di grassi saturi e 51% di grassi insaturi; vige dunque la stessa regola per burro, carne o formaggi: il suo consumo non nuoce alla nostra salute, se introdotto in un’alimentazione bilanciata e varia. Anzi, vi dirò di più. L’impiego dell’olio di palma ha permesso di ridurre drasticamente l’utilizzo dei grassi trans idrogenati, quelli che, consumati regolarmente, aumentano il rischio di patologie cardiovascolari. È doveroso quindi considerare questo aspetto quando ci chiediamo perché l’olio di palma venga utilizzato così tanto per la produzione di alimenti.

Se i grassi idrogenati sono una tale minaccia per la nostra salute, allora, perché non utilizzare il burro o, ancora meglio, olio di semi di girasole, olio d’oliva o olio di colza (grassi appartenente tra l’altro alla categoria con maggiori effetti benefici sulla salute), per produrre la pasta sfoglia o i biscotti di turno?
Sempre facendo riferimento all’articolo sui lipidi, sappiamo che i grassi insaturi (per lo più olii vegetali, appunto) sono sì quelli da prediligere, ma sono anche quelli con la shelf life più corta, più sensibili all’ossidazione e al calore, tendendo facilmente così ad irrancidirsi con il tempo; i grassi saturi come il burro, i lipidi della carne, delle uova, del latte e anche l’olio di palma, grazie alla loro struttura chimica più rigida, sono invece più indicati per la produzione di alimenti e cosmetici che richiedono una durata maggiore, mantenendo le proprie caratteristiche, odori e sapori, il più intatte possibili. L’olio di palma, grasso vegetale e non di origine animale come il burro, ha poi il grande vantaggio di non alterare il sapore e gli aromi del prodotto finale, essendo completamente neutro. Queste caratteristiche rendono infine l’olio di palma un ottimo alleato nella riduzione degli sprechi alimentari, allungando la conservazione dei prodotti in cui è presente.

“Va beh, sarà un ingrediente prodigioso quando si tratta di prodotti con lunghe scadenze, ma la sua coltivazione non è sostenibile! Inquina l’ambiente!”

Andiamo per gradi.
La coltivazione delle palme da olio non sarebbe per sè una minaccia: stiamo parlando di una coltura perenne, in grado di resistere e produrre abbondantemente per oltre 20 anni; In questo lasso di tempo il terreno beneficia della sua presenza. Le coltivazioni perenni sono infatti ottime alleate di qualsiasi orto o produzione agricola per rinforzare il suolo e proteggerlo dall’erosione, richiedendo al tempo stesso meno fertilizzanti e interventi di aratura. Le piante perenni sono inoltre ottimi depositi di CO2.
E non è finita qui…

Coltivare palme da olio significa un minor dispendio di acqua e di terreno.
In confronto ad altre coltivazioni, perenni o annuali, per la produzione di olii vegetali, quella per l’olio di palma richiede 6 volte meno acqua di quella per l’olio di girasole, 11 volte meno di quella per l’olio di oliva e addirittura 173 volte meno di quella per l’olio di mais. Il confronto tra queste colture in termini di suolo necessario è altrettanto scioccante.
Solo per darvi un’idea, se volessimo sostituire la produzione attuale di olio di palma con il nostro amatissimo olio di oliva, avremmo bisogno di 6 volte l’intera Italia, mentre utilizzando il mais, ne avremmo bisogno di oltre 100.

“Ok, ma la distruzione delle foreste pluviali è reale no? Consumare olio di palma è una minaccia per la biodiversità animale…o no?”

Purtroppo la sempre più crescente domanda di olio di palma ha dato vita ad una reale minaccia agli ecosistemi naturali dei territori in cui questa pianta trova terreno fertile. Per incontrare questo fabbisogno, infatti, si possono percorrere solo due strade: aumentare la resa (produzione più intensiva per mq2) o il terreno dedicato a quella specifica produzione. A partire dagli anni ‘80 la quantità di terra utilizzata per coltivare le palme è più che quadruplicata, da 4 milioni a 19 milioni di ettari nel 2018. Come accennato nella parte storica, Indonesia e Malesia rappresentano il 63% dell’uso globale della terra per la palma, coprendo però l’84% della produzione mondiale, questo perché entrambi i paesi raggiungono alti rendimenti. Sebbene la deforestazione delle foreste del Borneo non sia riconducibile solo all’olio di palma, è indiscutibile come la produzione di questo ingrediente sia strettamente legato ad una perdita ingente di biodiversità, soprattutto nel sud-est asiatico, dove la deforestazione, e non la degradazione delle foreste pluviali (ovvero un diradamento temporaneo delle foreste con successiva ricrescita), ha fatto spazio alle nuove piantagioni di palme da olio.
Focalizzandoci sui due maggiori produttori, i dati segnalano che la creazione di spazio per nuove palme sia stato la causa principale di deforestazione tra il 2000 e il 2016, con un picco tra il 2005 e 2009, seguito da un graduale ridimensionamento degli ettari rubati alla foresta per questo scopo.

Con la deforestazione delle foreste pluviali, perdiamo biodiversità e andiamo a stravolgere gli equilibri di ecosistemi essenziali per la sopravvivenza delle popolazioni indigene e locali, nonché del nostro pianeta stesso. Tuttavia, non è solo la perdita di biodiversità e le conseguenze ad essa legate a doverci preoccupare. Infatti, la deforestazione delle foreste pluviali, sia essa per palme da olio, per la produzione di legno, per monocolture dedite all’alimentazione animale o per allevamenti intensivi (se guardiamo alla foresta Amazzonica), rilascia nell’aria ingenti quantità di CO2: “un ettaro di foresta trasformato in palma da olio rilascia approssimativamente tante emissioni quante 530 persone in viaggio da Ginevra a New York” (Nature Communications – Thomas Guillaume). I cambiamenti climatici che stiamo vivendo oggi e che continueranno a intensificarsi sotto forma di eventi atmosferici estremi (siccità, piogge, venti, ecc.) sono causati proprio dalle enormi quantità di gas serra (tra cui la CO2) che vengono rilasciati nell’aria dalle attività umane.

Come se non bastasse, tra i lati oscuri dell’olio di palma, abbiamo l’impatto sociale che questa coltivazione intensiva comporta sia per chi lavora nelle piantagioni, spesso in condizioni di svantaggio economico e sfruttamento, che per chi vive nelle zone limitrofe: per queste famiglie l’espansione delle piantagioni è una vera e propria spada di Damocle sulla loro testa, una minaccia che potrebbero obbligarli ad abbandonare le loro abitazioni per fare spazio a nuove palme (un fenomeno presente in altri paesi, come anche in Germania, dove interi villaggi vengono cancellati per fare spazio a nuove miniere di carbone). Per i contadini, infine, scegliere di coltivare palme da olio significa abbandonare colture locali più remunerative e utili alla sussistenza della propria famiglia, privilegiando un prodotto finalizzato all’esportazione.

L’olio di palma è davvero un ingrediente controverso.
Esistono ottime ragioni per preferirlo ad altri grassi e olii nella produzione industriale di alimenti e cosmetici, ma ne esistono altrettante per fermarne l’espansione.
Una sua completa sostituzione comporterebbe la nascita di nuove monocolture che, come avete letto, non sono più sostenibili delle palme da olio e il boicottaggio non è sempre la risposta migliore.

Cosa fare allora? Continuiamo ad acquistare prodotti senza fare attenzione alla presenza dell’olio di palma? Oppure esiste un’alternativa?

Come ultimo step del nostro approfondimento nel mondo dell’olio di palma, parleremo proprio delle possibili soluzioni e scenari futuri.

Che futuro sarebbe senza olio di palma?

Boicottare l’olio di palma e i prodotti che lo contengono non solo non è sempre fattibile, ma è anche controproducente. I dati parlano chiaro: rispondere al fabbisogno attuale di olio di palma con un olio o grasso alternativo non sarebbe sostenibile, in termini di resa, di sfruttamento del terreno e di risorse idriche.

In un certo senso, l’alto rendimento dell’olio di palma “risparmia” al mondo ulteriore terreno agricolo di cui avremmo bisogno se volessimo soddisfare la medesima domanda globale con olii o grassi alternativi (vedi gli esempi riportati prima), anche se sarebbe doveroso considerare la differenza tra il dedicare un ettaro di terreno per semi di girasole in Europa e privare le foreste pluviali di un ettaro di terreno: infatti, le foreste tropicali sono molto più ricche di biodiversità e immagazzinano molto più carbonio dall’atmosfera. In alcuni casi, specialmente per i mercati interni europei, qualche sostituzione con olii di semi di colza o di girasole potrebbe avere un impatto ambientale positivo anche se richiedesse l’uso di un po’ più di terra.

Premesso questo, abbiamo anche visto quanto l’olio di palma abbia proprietà uniche, molto apprezzate nell’industria alimentare e cosmetica, cosa che rende difficile trovare un sostituto all’altezza in questi settori.

Lo stesso non possiamo però dire per l’industria dei biocombustibili; in questo caso, paesi come la Cina, l’India e l’Europa (il terzo più grande importatore al mondo) potrebbero dire basta all’olio di palma per questo uso. Sebbene l’olio di palma non sia l’unica opzione né tantomeno la migliore in qualità di biocarburante, questo utilizzo rappresenta i 2/3 dell’olio di palma importato in UE e i suoi effetti sono peggiori per l’ambiente rispetto a quelli della stessa benzina. Vietare quindi l’olio di palma come biocarburante aiuterebbe a ridurre gli impatti negativi di questo prodotto.

E per gli altri ambiti, allora, cosa possiamo fare? Qual è la soluzione per mettere fine alle esternalità negative che questa coltivazione arreca al nostro pianeta e a chi lo abita (noi umani inclusi)?

La soluzione sta nel rendere le piantagioni più resilienti.

Ebbene sì, perché come accade per qualsiasi altra coltura, anche le palme da olio possono rientrare in progetti agricoli rigenerativi, atti a creare veri e propri ecosistemi sostenibili.

L’olio di palma certificato RSPO

Il primo passo verso una coltivazione più responsabile della palma da olio ha avuto inizio nel 2004, quando è stata costituita la Roundtable on Sustainable Palm Oil con lo scopo di migliorare le condizioni di lavoro legate alla sua produzione, nonché gestire le problematiche di tipo ambientale. Oggi sono migliaia i produttori, le aziende e le associazioni ambientaliste che sono parte di questa Tavola Rotonda.

Come funziona la certificazione RSPO?

I produttori di olio di palma sono certificati da enti accreditati, gli stessi che possono ritirare la certificazione qualora i principi e criteri (sviluppati e rivisti ogni 5 anni) non vengano più rispettati. Secondo l’ultima revisione ai principi di produzione sostenibile, avvenuta nel 2018, questi rigorosi criteri di sostenibilità sono organizzati in tre aree d’impatto principali, delineando così le buone pratiche sociali, ambientali ed economiche.

gli standard RSPO nelle tre aree d’impatto

In Italia è nata, poi, nel 2015 l’Unione Italiana per l’Olio di Palma Sostenibile, che vede aziende come Ferrero, Nestlé Italia, Unigrà e I.S.F. Italy impegnate nel “[…] promuovere l’impiego di olio di palma sostenibile da parte delle aziende e di coordinare, in Italia, tutte le attività di comunicazione per favorirne la conoscenza da parte dei consumatori. I principi alla base delle sue attività sono la trasparenza e l’obiettività”.
Unioni analoghe a quella italiana sono presenti anche in altri paesi europei.

Le aziende membre dell’Unione Italiana si impegnano, quindi, ad utilizzare esclusivamente olio di palma certificato RSPO e olio coltivato sostenibilmente secondo i seguenti criteri:
– olio con origini conosciute e quindi tracciabili;
– olio prodotto senza convertire foreste e nel rispetto degli ecosistemi ad alto valore di conservazione;
– olio prodotto con pratiche colturali rispettose delle foreste ad alto valore di carbonio;
– olio prodotto con pratiche agricole atte a preservare le torbiere;
– olio non proveniente dalla conversione in piantagioni di aree sottoposte ad incendi volontari
– pratiche che proteggono i diritti dei lavoratori, popolazioni e comunità locali, rispettando il principio del consenso libero, preventivo e informato;
– pratiche che promuovono lo sviluppo dei piccoli produttori indipendenti.

Sono quindi le certificazioni la soluzione per una produzione e per un consumo di olio di palma più sostenibili?

Alcuni aspetti delle certificazioni sono in realtà controversi, tanto quanto il prodotto stesso di cui questo articolo tratta.

Infatti, secondo un recente studio basato sull’analisi di immagini satellitari degli ultimi 36 anni, le concessioni dei territori dati alle piantagioni, certificate come sostenibili, sono postume all’iniziale deforestazione del Borneo. In parole povere, più del 75% dell’attuale produzione RSPO è giudicata come sostenibile perché non viene considerata la storia recente di quei medesimi territori, aree che solo negli anni ’90 erano l’habitat di grandi specie di mammiferi in via di estinzione.

Sempre secondo questo studio, “delle attuali 27 basi di approvvigionamento certificate Rspo nel Borneo indonesiano (Kalimantan), 23 si trovano in un’area che era l’habitat degli oranghi fino al 1999. C’è di più, tre aree certificate RSPO erano completamente coperte da foreste tropicali fino al 2003-2008 prima di essere rapidamente disboscate, trasformate in piantagioni di palma da olio e quindi certificate come sostenibili”.

Alla luce di questi risultati, dove ieri c’era una foresta ricca di biodiversità, oggi si può fare spazio ad una nuova piantagione di palme da olio, per poi certificarla come RSPO in futuro.

Inutile dirvi, inoltre, che si sono registrate situazione di conflitto di interessi per alcuni membri della Tavola Rotonda, come successe nel 2008, quando una delle principali ONG indonesiane per la difesa dell’ambiente protestò ad una riunione della RSPO in Bali per portare l’attenzione sulla deforestazione illegale in atto nel Kalimantan occidentale da parte di giganti dell’agribusiness come Cargill, che gestiva anche diverse piantagioni certificate RSPO nella provincia. Altre preoccupazioni con la RSPO sono legate alla sua applicazione dei criteri e al sistema di controllo. Sono diversi infatti gli episodi in cui, a seguito di prove di violazione della sostenibilità e dei diritti dei lavoratori nei confronti di aziende membre, siano trascorsi anni prima che si vedesse la certificazione sospesa per quest’ultime.

Non dimentichiamo, infine, che l’obiettivo della Roundtable è quello di rendere l’olio di palma sostenibile la norma. Tuttavia, al momento, solo circa il 19% di quello prodotto è certificato RSPO, ciò significa che quando acquistiamo un prodotto contenente olio di palma o derivati, è altamente probabile che questo sia collegato alla doferstazione, agli incendi, alle violazioni dei diritti umani e ad altri problemi ambientali.

Supportiamo i piccoli produttori e la biodiversità

Anche per la produzione di olio di palma stanno emergendo nuovi modelli alternativi e associazioni complementari o superiori alla Roundtable.

Come già scritto in questo articolo, sono i piccoli produttori che, utilizzando solo il 30% delle risorse mondiali, forniscono il 70% del cibo che mangiamo*. Sono anche coloro che preservano la biodiversità degli ecosistemi grazie a modelli agricoli che favoriscono le policolture e non le monocolture, come anche nel caso delle palme da olio.
L’anno scorso, un team di ricerca dell’Università di Göttingen (Germania) e dell’Università di Jambi (Indonesia) ha pubblicato uno studio a tal proposito.

I piccoli agricoltori coltivano il 40% delle piantagioni di palma da olio e rappresentano quindi un importante target per sviluppare interventi specifici. Una delle problematiche legate alle piantagioni di palma da olio risiede nella loro struttura lineare che, come la maggior parte delle monocolture, offre poco spazio per specie diverse. L’obiettivo del team di ricerca era dunque provare che, introducendo specie arboree indigene insieme alle palme, si potesse contribuire a salvaguardare la biodiversità. Su questo sfondo, i ricercatori hanno diviso circa 800 piccoli agricoltori, quelli che hanno poco accesso alle informazioni, ai consigli e alle sementi di alta qualità, in tre gruppi di trattamento, ognuno dei quali ha ricevuto informazioni diverse e, in alcuni casi, alcune nuove piantine di alberi. Un gruppo ha proseguito con il consueto approccio agricolo, un altro ha ricevuto invece supporto informativo in cui si spiegava l’importanza di introdurre piante autoctone all’interno delle piantagioni di palme e al terzo sono state consegnate a titolo gratuito, oltre al materiale informativo, anche 6 piantine autoctone, selezionate insieme alla popolazione locale per individuare le più idonee.

I risultati hanno mostrato che c’è un alto livello di interesse per la diversificazione, soprattutto con alberi da frutto autoctoni, come espresso dalla popolazione locale; inoltre, con il giusto supporto, cresce il numero di alberi piantati nelle piantagioni dei piccoli proprietari; è anche chiaro però che è possibile coinvolgere un grande numero di agricoltori solo attraverso la distribuzione delle piantine, selezionate insieme a loro per garantirne la sopravvivenza.

Secondo questo studio, identificare le politiche per migliorare l’impatto ambientale della coltivazione della palma da olio è molto importante nel contesto della perdita di biodiversità. Ciò non toglie che si possa intervenire anche sul fronte della domanda, oltre che su quello dell’offerta. Noi consumatori potremmo ad esempio contribuire ai costi sostenuti attraverso la certificazione di piantagioni più rispettose dell’ambiente. D’altronde, se mi seguite da un pò, saprete ormai che il prezzo che paghiamo è sempre sintomo delle condizioni in cui quel prodotto è arrivato fino nelle nostre mani (condizioni di lavoro, condizioni ambientali, qualità della materia prima, ecc.).

Altre certificazioni

Il Palm Oil Innovation Group (POIG) è stato fondato nel 2013 con l’obiettivo di andare oltre la RSPO attraverso standard più forti e una migliore verifica, come la richiesta che l’intera azienda (non solo specifiche piantagioni) sia certificata, attraverso standard sociali e lavorativi più forti. Molte delle innovazioni di POIG sono state poi adottate dalla RSPO quando ha aggiornato i suoi standard nel 2018.

Nel frattempo, in America Latina, è nato il Palm Done Right, uno sforzo per lavorare con i piccoli agricoltori in Ecuador ai fini di implementare pratiche sostenibili, a partire dalla certificazione biologica, Wildlife Friendly e Deforestation Free.

Ingredienti alternativi

Abbiamo detto che trovare un sostituto all’altezza dell’olio di palma sia impossibile.
Solo al momento, però.
Nell’ambito dei mangimi per animali da allevamento e domestici, altro settore in cui l’olio di palma è largamente utilizzato, si sta sempre più puntando sugli insetti, con ottimi risultati anche in termini nutrizionali. Nell’industria alimentare sono i lieviti al centro delle ricerche per ottenere gli olii desiderati; le alghe potrebbero invece avere un ruolo decisivo nella produzione di biocarburanti.

Purtroppo però, rimane lo spauracchio di creare nuove monocolture a supporto delle alternative all’olio di palma: si elimina un problema per affrontarne di nuovi.
Sviluppare e migliorare approcci agricoli più resilienti, supportati da politiche ad hoc e con il coinvolgimento delle popolazioni locali, ancora una volta si profila essere la luce alla fine del tunnel.

Nel frattempo, noi consumatori possiamo cercare di limitare l’acquisto di prodotti con olio di palma, di prediligere quelli con la certificazione RSPO (o simili), di supportare i nostri prodotti locali e, perché no, di imparare qualche autoproduzione casalinga e consapevole.

Bibliografia:
Our World in Data
Il Fatto Alimentare
Göttingen Universität
The Guardian
RSPO
Unione Italiana Olio di Palma Sostenibile

* Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio. Vandana Shiva, 2015

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